Il ventennio mussoliniano ha impresso un’impronta tangibile sulla città di Roma, sia sul piano urbanistico che su quello culturale-simbolico. Il regime fece della capitale il proprio palcoscenico appellandosi di continuo ad una grottesca celebrazione dell’antica Roma. Essa costituiva il mito fondatore per eccellenza, il modello di forza, disciplina e grandezza a cui l’Italia avrebbe dovuto ispirarsi. Ancora oggi gli epigoni di Mussolini utilizzano caratteri, immagini e simboli legate alla romanità. Fino a qui, nulla di inedito.
Potrà forse sorprendere, invece, sapere che Roma, oltre a costituire un’ossessione ed un modello, rappresentò per il primo fascismo un territorio sconosciuto ed ostile. Sono indicative le parole dello stesso Mussolini, che a distanza di pochi mesi affermava di voler «fare di Roma la città del[lo] spirito [fascista]1» ma allo stesso tempo ricordava come «Roma [fosse] la città che conta[va] il maggior numero di giornali antifascisti. Come non bastassero […] a Roma, bisogna ricordarlo, [c’era] il covo infetto della più predace e parassitaria borghesia2». Insomma, i fascisti tanto amavano teoricamente l’idea della romanità quanto disprezzavano nel pratico la città ed i suoi abitanti. Il sentimento, come vedremo, era ampiamente ricambiato.
Rivoluzione e reazione
La storiografia ha ampiamente sottolineato cause e conseguenze della mancata industrializzazione di Roma. Questa, ascrivibile alle politiche di una classe dirigente risorgimentale spaventata da possibili disordini in città, ha aperto una discussione lunga un secolo e mezzo. D’altra parte, l’assenza di un proletariato di fabbrica numeroso e compatto ha indotto a sottovalutare in sede di analisi il movimento cittadino dei lavoratori. Edili, tipografi e lavoratori del trasporto pubblico costituivano le categorie più numerose di un proletariato frammentato ma incline a pratiche di azione diretta, lontano dalle logiche della mediazione dei partiti, vicino fin da subito all’anarchismo. Questa tendenza, giudicata spesso come sintomo di immaturità, si rivelerà fondamentale nella difesa dagli attacchi delle camicie nere.
L’altra faccia di una capitale amministrativa non industrializzata era una borghesia di burocrati e professionisti, «la più predace e parassitaria». Risiede proprio nella conformazione socio-economica dei ceti medi romani l’iniziale insuccesso fascista. L’egemonia della destra cittadina era già nelle mani dei nazionalisti, capaci di fungere da perno antisocialista, da raccordo tra i conservatori laici e quelli religiosi. Il nazionalismo era profondamente conservatore, cattolico e monarchico e si rivelò lo sbocco naturale di una borghesia per lo più colta e tradizionalista come quella romana, che di certo preferiva il blocco d’ordine nazionalista al fascismo di futuristi e arditi. Fu così che il fascio romano, fondato già nel ’19, dilaniato dalla contrapposizione interna tra la corrente diciannovista e quella mussoliniana, non riuscì ad attecchire proprio in quella città a cui si ispirava e fino alla fine del 1920 non diede continuità alle proprie azioni.
La difesa antifascista
Risale, al contrario, alla sanguinosa primavera del 1921 – con l’exploit fascista di consensi, violenze ed elezioni – l’arrivo della guerra civile nella capitale. Fu allora, durante l’estate, che si innescò una risposta antifascista tanto trasversale quanto poco compatta. A metà giugno nacque il Comitato di difesa proletaria (Cdp) su iniziativa dell’anarchico Eolo Varagnoli, un «patto di fraterna solidarietà» per raggiungere l’«unità di fine, di mezzi, di metodi e di azione»; il Cdp giocherà un ruolo centrale anche se i contrasti tra le diverse anime della sinistra di classe lo indeboliranno notevolmente. Risale a poche settimane dopo la nascita, proprio a Roma, degli Arditi del Popolo, di cui si è detto e scritto molto, la cui organizzazione in città sopravvisse anche alla repressione governativa.
Il congresso del 1921
Giungiamo così all’episodio più clamoroso ed emblematico dello scontro di Roma col fascismo di cui ricorre il centenario: il III congresso nazionale del fascismo, tenutosi in città tra il 7 e il 10 novembre 1921. Il congresso, passato alla storia come l’occasione in cui il fascismo si fece partito, ci può raccontare molto sul rapporto delle camicie nere con Roma. La settimana si aprì con la sepoltura del milite ignoto a piazza Venezia a cui seguì l’avvento di decine di migliaia di squadristi intenzionati ad occupare la città e punirla. Se i primi giorni di congresso non erano stati particolarmente cruenti, il precario equilibrio collassò con la morte di un macchinista nella zona di San Lorenzo causata da una sparatoria con dei fascisti bolognesi. Scattò immediato lo sciopero generale che si prolungò fino alla sera del 13 novembre.
Fu allora che Roma conobbe la violenza squadrista che impazzava in tutto il Paese da tempo. La città si spaccò in due: i fascisti occupavano il centro grazie alla protezione della forza pubblica, le zone popolari erano presidiate giorno e notte dalla popolazione in sciopero. Servirebbe un intero articolo per riportare tutte le violenze perpetrate durante quei giorni di novembre. I quartieri operai alla fine riuscirono a difendersi; su tutti Trionfale, San Lorenzo e Testaccio furono teatro di violenti scontri, ma paradossalmente anche la Roma borghese fu attraversata da inaspettate tensioni. La scarsa intelligenza dei congressisti, spinti dal disprezzo per la capitale parassita e passatista, li indusse ad aggredire la cittadinanza tutta, compresa quella politicamente affine ma ancora diffidente. La violenza squadrista fu talmente tanto sproporzionata e gratuita che anche i borghesi arrivarono a ribellarsi. Il 15 novembre 1921 Umanità Nova spiegava: «’Briganti, assassini’ sono gli epiteti che corrono sulle bocche di tutti. E non sono bocche di proletari!»; lo stesso giorno l’Avanti! titolava «Tutta Roma contro il fascismo. La capitale ha fatto esperienza dei barbari» e il Comitato di difesa proletaria celebrava una «compatta e meravigliosa protesta e [un] palese spirito di solidarietà della cittadinanza tutta». In questa fase, la disastrosa débâcle delle camicie nere indusse la stampa antifascista ad utilizzare l’immagine della romanità – tanto esaltata dal fascismo – come simbolo di speranza per tutto il Paese. Il Comitato di Difesa Proletaria affermava che «Il proletariato romano […] difendendo se stesso difende[va] la civiltà contro la barbarie, il diritto contro la violenza! La storia di Roma insegna a tutti che non si subiscono impunemente sopraffazioni, violenze, spavalderie» richiamando antiche contrapposizioni per evidenziare l’importanza della guerra civile in atto. Anche La Voce Repubblicana, qualche mese dopo, scrisse che «Da ogni parte d’Italia i lavoratori guarda[va]no a Roma da cui è partito il primo grido di sdegno contro gli assalti tra cittadini e cittadini, contro la sopraffazione e la prepotenza faziosa3». È paradossale che l’opposizione al fascismo, in quel momento, si sia incarnata in quelli che sarebbero stati due punti forti del regime e la sua propaganda: la romanità e l’eredità della guerra (che gli veniva contesa dagli Arditi del Popolo).
Dopo la marcia
Tra quei giorni di novembre e la Marcia su Roma si verificarono altri episodi degni di essere raccontati ed approfonditi in altra sede. La stessa marcia si rivelò una sfilata più che un colpo di stato, una vittoria più politica che militare. Gli antifascisti replicarono il copione del 1921 riuscendo, con molte difficoltà, ad evitare il peggio. Soltanto lunghi anni di repressione e propaganda furono in grado di costruire un consenso tutt’ora tristemente presente in certe fasce della popolazione, ma senza mai riuscire ad estinguere il dissenso antifascista nelle borgate e nei quartieri operai, che seppe esprimersi nella Resistenza, a cui presero parte molti di coloro che avevano combattuto la resistenza prima del regime, quella dei primi anni ’20.
A.L.
1 Discorso di Udine, 26 settembre 1922
2 I fatti di Roma, «Il Popolo d’Italia», 26 maggio 1922
3 A Roma, «La Voce Repubblicana», 30 aprile 1922.